E, insomma.
Col fatto che queste sere c'era poco da fare, in albergo, mi sono divertito a disegnare alla cazzo® questo divertissement. Appunto.
martedì 23 settembre 2014
giovedì 24 luglio 2014
Abandonware.
E insomma, ieri è capitata una cosa che credevo impossibile.
Ho rigiocato "The Adventures of Robin Hood", un videogioco del '92 che era rimasto scolpito nella mia memoria come una delle più appassionanti esperienze ludiche di sempre. Come mai? A vederlo così non fa certo una gran figura, con la sua risoluzione imbarazzante e la sua frame rate inqualificabile, però possedeva un paio di qualità che scatenarono il mio amore incondizionato fin dal primo istante.
Anzitutto, caratteristica innovativa per quei tempi (ma anche per questi, ahimé), tutti i personaggi della pur modestissima mappa conducevano una loro vita autonoma: la gente andava a caccia, a zappare, a raccoglier legna, a questuare, a prender messa, ad assistere alle esecuzioni o ai proclami, e così via, indipendentemente dalla presenza di osservatori. Per me, che all'epoca stavo sviluppando analoghe routines per i miei giochi cartacei, fu stupendo trovarmi immerso in un micromondo vivo.
E poi, la visuale era isometrica.
Probabilmente grazie al suo impianto normalizzatore, fiscale addirittura, quello con l'assonometria è stato già alle scuole medie un altro amore a prima vista.
Per tutta la vita ho dovuto confrontarmi con il mio approccio eccessivamente schematico all'esistenza, è stato ed è uno dei più grandi intralci in qualsiasi impresa, se non il più grande. Solo che all'epoca non sapevo ancora che esistesse.
Ne sia prova questa mappa del gioco in questione, datata al '95 o '96.
Sorrido ripensando a come, disegnandola, trovassi assurdo rappresentare due alberi che nel gioco erano identici con pallini di grandezze differenti; o a come mi sembrasse indispensabile che le caselle presentassero lo stesso esatto numero di simboli.
Contateli: i quadretti di sterrato erboso hanno quattro pallini; quelli di sterrato battuto ne hanno sedici. Tutti quanti.
Col tempo ho imparato a riconoscerle, queste compulsioni; a disciplinarle, o almeno a incanalarle produttivamente - un po'. Però, insomma, ieri è capitata una cosa che credevo proprio impossibile: ho perso.
Due volte di fila.
Ho rigiocato "The Adventures of Robin Hood", un videogioco del '92 che era rimasto scolpito nella mia memoria come una delle più appassionanti esperienze ludiche di sempre. Come mai? A vederlo così non fa certo una gran figura, con la sua risoluzione imbarazzante e la sua frame rate inqualificabile, però possedeva un paio di qualità che scatenarono il mio amore incondizionato fin dal primo istante.
Anzitutto, caratteristica innovativa per quei tempi (ma anche per questi, ahimé), tutti i personaggi della pur modestissima mappa conducevano una loro vita autonoma: la gente andava a caccia, a zappare, a raccoglier legna, a questuare, a prender messa, ad assistere alle esecuzioni o ai proclami, e così via, indipendentemente dalla presenza di osservatori. Per me, che all'epoca stavo sviluppando analoghe routines per i miei giochi cartacei, fu stupendo trovarmi immerso in un micromondo vivo.
E poi, la visuale era isometrica.
Probabilmente grazie al suo impianto normalizzatore, fiscale addirittura, quello con l'assonometria è stato già alle scuole medie un altro amore a prima vista.
Per tutta la vita ho dovuto confrontarmi con il mio approccio eccessivamente schematico all'esistenza, è stato ed è uno dei più grandi intralci in qualsiasi impresa, se non il più grande. Solo che all'epoca non sapevo ancora che esistesse.
Ne sia prova questa mappa del gioco in questione, datata al '95 o '96.
Sorrido ripensando a come, disegnandola, trovassi assurdo rappresentare due alberi che nel gioco erano identici con pallini di grandezze differenti; o a come mi sembrasse indispensabile che le caselle presentassero lo stesso esatto numero di simboli.
Contateli: i quadretti di sterrato erboso hanno quattro pallini; quelli di sterrato battuto ne hanno sedici. Tutti quanti.
Col tempo ho imparato a riconoscerle, queste compulsioni; a disciplinarle, o almeno a incanalarle produttivamente - un po'. Però, insomma, ieri è capitata una cosa che credevo proprio impossibile: ho perso.
Due volte di fila.
(mappone composito by Kennel - reperito su VGMaps.com) |
sabato 5 luglio 2014
Panacea.
Sono contrario alla satira; nel migliore dei casi, trovo che sia del tutto inutile. Però, quando c'è la possibilità di disegnare qualche cazzo ai personaggi Disney®, non me la lascio sfuggire.
giovedì 15 maggio 2014
La morte delle illusioni.
Scoprii "La morte di Marat" in seconda o terza media, e fino a ieri sono rimasto convinto che ritraesse un suicidio: anzi, per tutti questi anni ha rappresentato il suicidio, nella mia immaginazione (la penna, il messaggio, l'abbandono del corpo vigoroso). Solo dopo aver finito il disegno, ho scoperto la verità si Wikipedia.
Questo Archimede rimarrà l'involontario tributo a una disillusione quasi quartodisecolare.
Questo Archimede rimarrà l'involontario tributo a una disillusione quasi quartodisecolare.
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